20 dic 2021

Il trasloco è un giudizio universale (su chi saremo): ci fa paura e ci rianima

 di Gaia Manzini (Corriere della Sera 20.12.2021)

Fare gli scatoloni, decidere cosa tenere e cosa buttare. Breve storia di un processo creativo che rivela chi eravamo. E compila il catalogo di un mondo possibile. Passando per Andrea Staid, André Gide, Virginia Woolf e Morgan

Elizabeth Hardwick è stata la più influente critica letteraria americana del Novecento. Era cresciuta nel Sud degli Stati Uniti, poi a un certo punto era partita per New York. Abitava in un albergo dove divideva la stanza con un amico del Kentucky, anche se a tutt’e due piacevano i maschi. Per molti anni aveva sempre vissuto in residenze per sole donne, luoghi temporanei, promiscui, di transizione. La sua vita si spostava spesso dentro agli scatoloni. In una lettera del 1962, scrive a Mary McCarthy, amica e scrittrice, del suo ennesimo trasloco, del suo ennesimo ritorno a New York.


«TRASFERIRSI ALTERA L’ALCHIMIA SU CUI SI BASA IL NOSTRO BENESSERE. EPPURE SAPPIAMO CHE LA FELICITÀ NON È MAI STATICA»

Il trasferimento da Boston non è stato facile, è stato come attraversare l’oceano con tutta la vita impacchettata. Il tavolo da disegno e il cassettone non erano pronti per questo esilio repentino; cinque piatti si sono rotti; i cassetti si sono sbeccati; gli orologi non torneranno più in vita. Alcuni oggetti si sono smarriti, altri – come il ritratto della zia – non troveranno più la via d’uscita dalla scatola che li ha trasportati. Scartati definitivamente. Perché cambiare casa è sempre la rivoluzione di un universo, in attesa che un altro universo trovi la giusta forma.

Il trauma di «San Franschifo»

Il cambiare casa è un momento decisivo nella vita di ciascuno di noi: un momento narrativo, verrebbe da dire, in cui prima si elabora e in parte cancella quanto c’è stato intorno a noi; poi nei giorni successivi si inizia un nuovo processo creativo, attraverso il quale trovare nuovi racconti di sé e del mondo che ci circonda. Riley Andersen, la giovane protagonista del film Inside Out vive in Minnesota; quando il lavoro del padre costringe la famiglia a trasferirsi a San Francisco non può trattenersi dal sentirsi delusa davanti alla nuova casa, piccola e spoglia. San Francisco verrà soprannominata San Franschifo, anche se l’origine dello sconforto è direttamente legata all’abitazione prima ancora che alla città. In fondo le città sono solo dei palcoscenici; non abitiamo mai davvero le città perché le città sono inabitabili, scrive Emanuele Coccia nella sua Filosofia della casa (Einaudi). Possiamo gironzolare per le strade, chiuderci in un ristorante, un teatro, un cinema, ma primo o poi torneremo a casa nostra. «È sempre e solo grazie e dentro una casa che abitiamo questo pianeta».

L’intimità costruita tra le mura di casa

La casa è il luogo in cui costruiamo un’intimità con una porzione di mondo fatta di oggetti, persone, animali, immagini, ricordi, che rendono possibile la nostra felicità. Ecco perché cambiare casa è sempre sconvolgente: traslocare altera, seppur momentaneamente, questa relazione intima, questa alchimia su cui si basa il nostro benessere. Eppure c’è un paradosso: la felicità non è mai qualcosa di statico, la nostra stessa vita è in continua evoluzione. Friedensreich Hundertwasser, artista e architetto di origini austriache, diceva che l’uomo possiede tre pelli: la propria, gli abiti e la dimora. Tutt’e e tre devono rinnovarsi, crescere e mutare. I cambiamenti sono nella natura delle cose. Se la terza pelle – cioè la casa – non si rinnova come le altre, si irrigidisce e muore, come la cute secca. Il rinnovamento della casa può essere un restauro, uno spostamento di mobili, un nuovo arredo, oppure un trasferimento, dunque un cambiamento radicale, perché è nei cambiamenti radicali che spesso troviamo i nuovi percorsi della nostra stessa personalità. Non è affatto vero, scriveva sempre Hardwick, che non importa dove abiti; non è vero che sei sempre tu sia a Dallas che a New York. Come non è vero che ognuno di noi è legato alla propria regione.

L’AUTRICE AMERICANA SOLNIT E LA SUA CASA A SAN FRANCISCO: «QUANDO ME NE ANDAI, MI RESI CONTO CHE ERO UNA PERSONA DIVERSA DA QUANDO CI ERO ENTRATA TANTI ANNI PRIMA»

L’esperienza (dura) di un’errata collocazione

Molti di noi sperimentano l’esperienza di un’errata collocazione. Vanno alla deriva cercando quella giusta, e forse in alcuni casi non la troveranno mai. Rebecca Solnit, scrittrice, giornalista e femminista americana, nel suo Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie) si rammenta della sua giovinezza a San Francisco, quando era ancora troppo giovane perché la sua vita somigliasse a qualcosa di definitivo. Un giorno andò a vedere un appartamento in una vecchia casa di legno, un monolocale bellissimo con due bovindi inondati di luce: quella divenne casa sua per molti anni. Ci si era trasferita che era ancora un quartiere abitato quasi soltanto da persone di colore e se ne andò quando ormai la gentrificazione lo aveva trasformato. Se ne andò perché anche lei si sentiva diversa: «La persona che se ne andò dalla casa nel Ventunesimo secolo non era la stessa che era andata ad abitarci tanti anni prima». Si costruisce qualcosa che è la vita, che è la propria identità in un continuo sforzo creativo che implica spesso il cambiare casa: lo sceglierne una nuova, il fermarsi a elaborare. I luoghi che abitiamo ci nutrono e ci completano. «In quel piccolo appartamento trovai una casa in cui trasformarmi, un posto dove stare mentre cambiavo e trovavo un posto fuori, nel mondo».

Carne e mattoni abitano uno dentro l’altro

C’era stata talmente tanto in quella casa, Rebecca Solnit, da avere l’impressione che lei e l’appartamento potessero abitare l’uno dentro l’altra, in una coincidenza perfetta. Per l’antropologo Andrea Staid (La casa vivente, add editore) il modo in cui le persone abitano costruisce la propria identità e cultura: abitare assume sempre il senso più ampio di prendersi cura di sé e degli altri. Non facciamo altro che passare il tempo a «fare luogo». Andrea Staid, che ha studiato le modalità abitative in tutto il mondo, ha messo in luce come nelle culture vernacolari la connessione tra l’architettura materiale e l’architettura simbolica sia più evidente, così è ad esempio per le yurte mongole o per gli inukshuk inuit. I tolek africani sono case di terra a forma di proiettile con un diametro di cinque-sette metri.

André Gide se ne innamorò a prima vista; per lui quelle case non erano l’opera di un muratore ma di un vasaio: luoghi in connessione armonica con il mondo circostante, propulsori di energia positiva della madre terra. Ida, protagonista della Storia di Elsa Morante, violentata dal soldato tedesco Gunther, continuerà a spostarsi insieme al figlio Useppe – nato proprio da quella violenza, ma comunque profondamente amato. La guerra, i bombardamenti, le fughe, i traslochi continui: ogni nuovo luogo, nonostante tutto, contiene in sé la promessa di trovare finalmente un’armonia, dunque la felicità.

L’ARCHITETTO HUNDERTWASSER: «L’UOMO POSSIEDE TRE PELLI, LA PROPRIA, GLI ABITI E LA DIMORA. TUTTI E TRE DEVONO RINNOVARSI»

Andiamo a vedere le case nuove dove ci trasferiremo, sono spazi vuoti che al momento possono anche comunicarci ben poco. Dobbiamo riempirli con la fantasia, iniziare a raccontarceli, immaginare lì dentro i nostri movimenti, la coreografia del nostro quotidiano. È un processo lungo, perché «uno spazio diventa un luogo quando propone a chi lo abita un riorientamento simbolico e identitario», scrive Staid. Tutti noi costruiamo una visione di noi stessi e del mondo a partire dalle nostre case. La storia di ognuno di noi parte da una casa, quella di famiglia: dunque da una radicale identificazione, oppure talvolta distacco rispetto a quello da cui veniamo. La casa dice chi siamo o chi vorremmo essere. Nella casa ci sono i nostri dolori, le nostre gioie, la nostra identità nuda. Per Primo Levi la casa era un luogo di memorie, deposito del proprio passato, e in qualche misura del presente. Nella casa stratifichiamo noi stessi e i nostri sogni; la casa è la geologia della nostra vita. Forse è proprio per questo che a volte fa bene liberarsene.

Smarrirsi fuori casa per aprirsi all’ignoto

Per Virginia Woolf, appena usciamo di casa, ci togliamo di dosso la consueta personalità: il che può essere una liberazione dalla nostra identità; l’anonimato è un modo per sentirci liberi. Fuori dalla conchiglia della nostra casa, diventiamo anonimi pedoni: ci smarriamo, non in senso letterale ma nel senso di aprirci verso l’ignoto; lo spazio fisico diventa spazio mentale. Lì è il momento fecondo della scrittura a occhi aperti, il momento in cui è facile immaginarci di essere qualcun altro. È il momento in cui possiamo essere illimitati; anche se poi a casa torneremo, prima o poi. E se la casa decidiamo di cambiarla in continuazione? Nel Libro delle case Andrea Bajani costruisce l’intera storia del suo protagonista descrivendo le molteplici abitazioni in cui ha vissuto. In fondo, è un romanzo sullo sradicamento: il personaggio non fa altro che andarsene, trasferirsi di casa in casa; avendone molte, è come se non ne avesse alcuna. Siamo spaventati dai traslochi, li vediamo come punti di non ritorno; eppure anche se ci spostiamo in continuazione non possiamo far altro che portarci dietro ciò che riteniamo necessario alla vita. Anche se ci spostiamo di continuo non possiamo far altro che cercare una casa e ridefinirci di volta in volta davanti agli scatoloni aperti; ogni volta ci mettiamo a fuoco sempre con maggiore precisione e rinnoviamo la nostra esistenza.

Trenta traslochi, 40 scatoloni in 48 ore

«Erano ovunque e avevano sfigurato il salotto in un labirinto di cartone, nastro adesivo e angosce… Stavo per prendere in mano il primo quando rimasi paralizzato da un grappolo di ricordi confusi – quante volte avevo ripetuto quello stesso gesto? Mi fermai un istante e provai a contare e a ricordare i traslochi già fatti. Trenta… Avevo avuto appena due giorni per chiudere casa. Quarantotto ore per comprare ottanta scatoloni, montarli, chiuderci dentro la mia vita – vestiti, stoviglie, libri, foto, ricordi – affittare un furgone, caricarlo e scaricarlo di nuovo, depositare tutto nel nuovo appartamento, riesumare la mia vita in un luogo che conoscevo appena» scrive Emanuele Coccia. I traslochi sono come il giudizio universale: si salva qualcosa e si condanna all’oblio il resto. Eppure è il trasloco che fa la casa, perché è un momento di elezione. Attraverso la scelta degli oggetti «facciamo casa», che è più importante della casa stessa. Facciamo il catalogo di un mondo possibile.

Cambiare. liberandoci di una parte di mondo

È per questo che traslocare, a volte, è così difficile: significa contemplare tutto quello di cui abbiamo bisogno per dire io in quella fase della nostra vita. È in questa stessa occasione che ci liberiamo di una parte di mondo che non ci appartiene più e mandiamo avanti la nostra esistenza. Come canta Morgan in Altrove: «Un ultimo sguardo / commosso all’arredamento / e chi si è visto si è visto».

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