29 feb 2024

Forse hanno ragione loro

Nonostante io mi consideri un instancabile promotore dell'inclusione in tutti gli ambiti della vita, scuola, famiglia, lavoro, sport, divertimento in genere, devo ammettere che ancora oggi mi succede spesso di interrogarmi su che cosa significhi

INCLUSIONE

e sul perché dovremmo applicarla e viverla nel nostro quotidiano.

Includere per me, in questo momento, significa "prendersi cura insieme", e in effetti le persone inclusive che conosco sono sempre attente, pazienti, coinvolte e rispettose verso gli altri che si trovano in difficoltà.


Non si celebrano quelli belli, forti, intelligenti, vincenti che abbondano nei social o nei posti fighi, ma si cercano la bellezza, la forza, le intelligenze in ogni loro declinazione, che scopriamo nel mondo e nelle persone che incontriamo.

L'inclusione è un impegno quotidiano verso chi è più fragile, è la creatività nel cercare sempre il modo, anche quando la speranza "è andata un attimo in bagno".

Inclusione è pazienza e ascolto verso parole e gesti all'inizio incomprensibili, ma che con il tempo e l'attenzione diventano puntini da unire, per scrivere parole e raccontare vissuti densi della più semplice e potente umanità.

Io non so quanto impegno chiede tutto questo,  so solo che mi fa sentire felice aiutare qualcuno che riesce ad andare oltre il suo limite.

 

 Il film è straordinario, si trova su prime video, il titolo è "The Specials". 

I francesi hanno grandi contraddizioni, da una parte producono film come questo e dall'altra hanno la scuola pubblica preclusa ai disabili, che raggruppano nelle scuole speciali.
In Italia siamo avanti nell'inclusione scolastica, ma cominciamo a dimenticarci le cose appena la scuola è finita.
Non sempre, non tutti, ma purtroppo ancora in troppi.

13 feb 2024

Disabili e società. Emma ha 18 anni, «ora dobbiamo lasciarla andare»

Una madre, una figlia con la sindrome di Down e un cerchio che si chiude. «La palla passa a lei». I pensieri, il tempo e l’orizzonte, tutto raccolto in un libro, intitolato “Diciotto” 
di Claudio Arrigoni corriere.it

Emma, il giorno del 18esimo compleanno
Sono diciotto. Gli anni di Emma e i regali che Martina ha pensato per lei. Chiusi in quelle capsule del tempo che non spariranno mai, perché sono nella mente e nel cuore. Una figlia che cresce e una mamma che sa coltivare la memoria per liberare il futuro. Diventa il regalo di Martina per Emma: una grande scatola che contiene 18 oggetti e 18 lettere. Gliela consegna il giorno prima della festa. Vuole un momento tutto per loro. Sono libri, vestiti, foto, ricordi di quel pezzo di vita trascorso insieme. È l’inizio, per entrambe, di un viaggio nel tempo che ha attraversato le loro vite, unite in una famiglia unica ma uguale a tante altre con l’amore dentro. Quel momento è diventato un racconto che non scade in pietismo o esaltazione, come sempre dovrebbe essere quando si affronta una condizione di vita potenzialmente discriminante. Perché Emma è nata con la sindrome di Down e questo è un particolare non secondario, ma rimane un particolare dentro una vita che ne ha tanti altri.

L’orizzonte
Diciotto , uscito nei giorni scorsi per Salani, non è un libro scritto dalla madre di una ragazza con sindrome di Down: «Mi sento molto mamma, e questo basta». Ed infatti è nato per una figlia e su una figlia, il loro rapporto e quello con il mondo, gli amici, la famiglia, la sorella e il fratello, le passioni e le sorprese. Viaggi, incontri, città e paesi diversi, culture nuove. La sindrome di Down è un pezzo dentro a tutto questo, niente di più e niente di meno. «Ho voluto e cercato di uscire dai confini di una condizione particolare, parlare ai genitori in maniera più larga». Una narrazione che era cominciata con lo Lo zaino di Emma , il primo libro in cui Martina Fuga, veneziana di nascita e milanese di adozione, la racconta, e che trova sublimazione in questo ultimo lavoro: «La celebrazione dei suoi diciotto anni era il perfezionamento di un ciclo di vita e mi sentivo di chiudere il cerchio per lasciare poi la palla a Emma, se avrà voglia di raccontarsi. Sentivo di avere come una scadenza, oltre quella data non volevo andare».

Il tempo
Si parte dalla nascita, ma non è la cronologia di una vita. Episodi che la fanno capire, quello sì. Le vacanze in America, il primo giorno di scuola, l’incontro con Papa Francesco, il primo appuntamento con un fidanzato, il rapporto con la sorella e il fratello («è stata forse la parte più difficile da affrontare, un tema centrale, la parte in cui un genitore si sente meno adeguato: è l’altra faccia del “dopo di noi”, una responsabilità che non deve essere in capo a loro»), le esigenze di una ragazza sempre più autonoma, consapevole, pronta ad affrontare la vita adulta.
Momenti. Martina che sta tornando dalla corsa del mattino, cuffie in testa e fiato corto. Una mamma e il suo bambino che stanno entrando in un portone. Lui la vede, le parla. Lei non sente, si ferma. «Era un bambino particolare, non so quale conto aperto avesse con la vita, ma lo aveva. Jeans, maglietta rossa e zainetto blu. Era bello, la pelle liscia e abbronzata, un sorriso generoso, occhi curiosi che cercavano qualcosa. Ho tolto in fretta le cuffie e gli ho detto: “Buongiorno, scusa, non ti ho sentito!”. “Dove vai?” mi ha chiesto. “A casa. Sono andata a correre e ora sto tornando a casa”. Non ho fatto in tempo a chiedergli “e tu?” che la mamma l’ha tirato dentro il portone. Lui voleva parlare con me e lei tirava. Avrei voluto parlare con lui. Davvero. Avrei anche voluto dire a quella mamma: “Va tutto bene, va tutto bene. So cosa stai pensando. So come ti senti. Mi fa piacere parlare con tuo figlio. Davvero”. Non c’è stato modo, sono stati inghiottiti dall’imbarazzo e dal disagio in un attimo. Ho ripreso i miei passi e appena girato l’angolo ho pianto le lacrime che avevo trattenuto lungo i chilometri di corsa del giorno. Quelle che accumulo nei pensieri ossessivi che mi tolgono il sonno e quelle che trovano posto solo nei miei passi». Quella sfumatura di preoccupazione che spesso è presente nei genitori di persone con disabilità, che hanno vissuto anche Martina e suo marito Paolo: «Non si vuole vederli rifiutare, in un tentativo di protezione che è anche verso noi stessi».

L'amore
Martina Fuga è una storica dell’arte, con diversi libri divulgativi scritti per ragazze e ragazzi, oltre a essere attivista per i diritti delle persone con disabilità e contro ogni tipo di discriminazione. Presidente dell’associazione Genitori e Persone con sindrome di Down e responsabile della comunicazione di Coordown, si occupa di disabilità per amore e di arte per mestiere, ma «non è chiaro dove finisca il mestiere e dove inizi l’amore». Quello che è dentro anche una famiglia meravigliosa, con Giulia e Lorenzo, insieme a Emma, diventati cittadini del mondo per viaggi e residenze. «Hanno frequentato le scuole in paesi e modalità diverse, da quella americana all’italiana, alla francese, anche in remoto per la pandemia. Per Emma l’esperienza forse più difficile è stata quella in Francia, dove ci sono ancora le classi speciali, è stato doloroso vivere quella esclusione». In Italia per lei c’è stato anche l’amore con Alessandro, con quel primo appuntamento da soli e le mamme a seguirli per un tratto a distanza: «Lo racconto in uno dei capitoli. L’amore sa scardinare dei tabù e ha bisogno di spazio, sempre e per tutti».

«L’AUTONOMIA E’ UN OBIETTIVO DI TUTTI, MA NON UGUALE PER TUTTI. SIGNIFICA ESSERE CONSAPEVOLI DI COSA SI HA BISOGNO, E COME CHIEDERLO»

La comunicazione
Un giorno di ormai diversi anni fa a Milano, Martina incontra un ragazzo di quelli che forse mai avrebbe immaginato: «Mi dice: gioco a calcio. Gli dico: mi occupo di arte. Ho capito una volta di più che bisogna conoscere le persone oltre le etichette». Perché poi con Paolo si è sposata e ha girato l’Europa insieme ai tre figli per seguirlo come giocatore prima e allenatore poi, fra Istanbul, Nantes, Londra. Nel calcio non una meteora: Orlandoni è uno di quelli del triplete con l’Inter di Mourinho, tanto per capirsi. «Diciamo che lui ha imparato a frequentare le mostre con me e io a frequentare gli stadi con lui». In una delle prime capsule del tempo dentro Diciotto ci sono i messaggi con Paolo nella notte della nascita. «Noi siamo molto positivi. Le preoccupazioni c’erano, ma siamo riusciti ad andare oltre». Perché Martina scopre quando Emma nasce che la condizione non è quella che ci si aspetta nei momenti in cui si addobba la cameretta o si pensa ai vestitini. «Fu importante la comunicazione, dolce e delicata. Non sempre è così, purtroppo. Ricordo quella notte. Una infermiera mi portò le foto di suo fratello, anche lui con la sindrome di Down. Mi raccontò la sua vita, le conquiste, gli affetti. Non sapevo nulla, fu fondamentale. Pensandoci poi, capisco quanto sia stata un’ancora, alla quale mi sono aggrappata in una notte tempestosa». Paolo era a casa con Giulia, Martina in ospedale. Parole che arrivano sui display di cellulari, lontani solo nello spazio.

I pensieri
«”Dormi? Io non riesco”. “Tu come stai?”. “Ieri sera quando sono rimasta sola ho avuto un momento di sconforto. Ero triste e pensavo a tutto quello che le mancherà e che non potrà fare, mai però ho pensato che mancherà qualcosa a noi”. “Non le mancherà niente...”. “La prenderanno in giro...”. “Non glielo permetteremo, saremo lì a proteggerla!”. “Si farà degli amici?”. “Certo che avrà degli amici, sarà estroversa e piena di amici come Giulia...”».
Sono i pensieri di ogni mamma e ogni papà che vedono una figlia o un figlio affacciarsi. La sindrome di Down pervade, ma non invade: «Il viaggio di Emma è verso l’autonomia, un obiettivo di tutti, ma non uguale per tutti. Significa essere consapevoli di cosa si ha bisogno e come chiederlo, se serve. Per affrontare il mondo e prendersi la vita».

15 gen 2024

Gente che studia roba seria

 


Anarchia e riformismo, la lezione di Sergio Staino tra inciucio e presa in giro

di Tommaso Nannicini (Il Riformista 14 Gennaio 2024)

L’anarchia senza riformismo è una presa in giro: “Starsene con una bandiera rossa in mano sullo scoglio, bella soddisfazione”, per dirla con le sue parole. Ma il riformismo senza anarchia è inciucio, carrierismo, corruttela.

Il 2023 si è portato via tante cose, tra cui la spinta instancabile, profonda, contagiosa a fare politica di un grande intellettuale come Sergio Staino. Non ci ha portato via il suo sorriso, il cui ricordo è qui con noi a riscaldarci, e non ci ha portato via i lampi del suo pensiero, che restano a illuminarci. Penso invece alla funziona maieutica che sapeva svolgere su molti e molte di noi, quella capacità tutta sua di tirarti fuori la voglia di fare politica, di lottare per cambiare le cose, anche quando la disillusione ti aveva fiaccato le gambe. È con questa assenza, purtroppo, che dovremo imparare a fare i conti. Uno degli omaggi più belli dopo la sua scomparsa sta in una vignetta di Ellekappa, dove Bobo dice a Dio: “allora prima di tutto si fa questo inserto, organizziamo una presentazione, una mostra, un concerto, un dibattito, eh?” E Dio pensa sconsolato: “una volta qui era un paradiso”. Sergio era così. E per questo in tanti e tante lo adoravamo. Perché trovava sempre un modo per affrancarti dalle tue stanchezze, delusioni, paure. Dai compagno, diamoci da fare, non sei solo.

L’attività politica per Staino non era attivismo fine a sé stesso, o peggio voglia di esserci per forza e mettersi in mostra. Era vita. Che cosa significhi ce lo spiega Édouard Louis in un libro forte come un pugno sullo stomaco e dolce come una carezza sulla testa: “Chi ha ucciso mio padre” (Bompiani). L’autore ricorda una giornata di rara e spensierata allegria passata al mare, verso cui tutta la famiglia si era lanciata, in sei su una macchina per cinque, per festeggiare la decisione del governo di far salire di cento euro gli aiuti per il nuovo anno scolastico. Chiosa Louis: “Non ho mai visto le famiglie che hanno tutto andare a vedere il mare per festeggiare una decisione politica, perché la politica a loro non cambia quasi nulla. Me ne sono accorto quando sono andato a vivere a Parigi, lontano da te: i dominanti possono lamentarsi di un governo di sinistra, possono lamentarsi di un governo di destra, ma un governo non gli causa mai problemi di digestione, un governo non gli spacca la schiena, un governo non li spinge verso il mare. La politica non cambia la loro vita, o così poco. Anche questo è strano, fanno la politica e la politica non ha quasi nessun effetto sulla loro vita. Per i dominanti la politica è nella maggior parte dei casi una questione estetica: un modo di pensarsi, un modo di vedere il mondo, di costruire la propria persona. Per noi era questione di vita o di morte”.

Quando ho letto questo passaggio, che arriva dritto al cuore passando per lo stomaco, ho subito pensato a Sergio. E alla storia che amava ripetere di quando aveva visitato il penitenziario di Arezzo e alcuni carcerati gli avevano confessato di essere preoccupati per le imminenti elezioni, perché temevano che il vincitore avrebbe tolto i finanziamenti a un programma di formazione e orientamento che era la speranza che li faceva tirare avanti. Era vita. Questo è il senso della politica. Per questo dobbiamo farla. Per loro. Ti ripeteva a martello alla fine del racconto.

Fare politica per Staino, da uomo di sinistra, voleva dire tenere insieme anarchia e riformismo, sogno e concretezza. Perché il sol dell’avvenire ti serve a illuminare il cammino, a far crescere piante e germogli lungo la strada, ma se pensi di trasferirtici finisci per bruciarti. L’anarchia è il sogno di una società dove non ci sono sfruttati e ognuno è libero nella sostanza dei rapporti sociali, non solo nei diritti scritti sulla carta. Il riformismo è lo studio su come avvicinarsi anche solo di un centimetro a quel sogno: con quali alleanze sociali, con quali compromessi, capendo come far crescere la voglia di rapporti sociali più giusti nel cuore delle persone. L’anarchia senza riformismo è una presa in giro: “starsene con una bandiera rossa in mano sullo scoglio, bella soddisfazione”, per dirla con le sue parole. Ma il riformismo senza anarchia è inciucio, carrierismo, corruttela.

Il primo corollario di questa visione, per Staino, era il compito etico che spettava alla sinistra: quello di selezionare una classe dirigente degna di questo nome. Una classe dirigente che non si limiti “a fare discorsi belli” ma si cimenti con la fatica dello studio, dell’ascolto: una classe dirigente empatica e ferma nei suoi valori di riferimento. Le arrabbiature contro tizio o caio non erano mai personali in Sergio, non erano mai dettate dallo scontro tra opposti narcisismi. Fare politica con superficialità, senza studiare, pensando alla propria carriera piuttosto che ai carcerati di Arezzo: erano queste le cose che lo mandavano su tutte le furie, non certo un’idea diversa dalla sua.

Il secondo corollario di questa visione era la distanza da qualsiasi tentazione populista. “Ho pianto”, ci ha detto una volta per un’iniziativa dell’associazione Volare, quando le nostre e i nostri militanti hanno votato per il taglio dei parlamentari. Perché abbiamo dato cittadinanza all’idea che la politica è qualcosa da tagliare sempre e comunque, indipendentemente dalla sua qualità. Con i grillini, ci disse, dobbiamo allearci, ci mancherebbe altro: ci siamo alleati anche con i monarchici quando c’era da sconfiggere il fascismo! Ma una cosa è allearsi, una cosa è svendere le proprie idee, smarrire il senso di una politica che col “vaffa” e la superficialità non c’entra niente.

Ciao Sergio, continueremo a fare politica come ci hai insegnato tu. E non ti incavolare troppo se, strada facendo, torneremo a fare degli errori. Anzi. Un po’ fallo, perché l’eco delle tue rimbrottate ci arriverà anche da lassù, spingendoci – spero – a far tesoro anche di quegli errori.

TOMMASO NANNICINI


20 dic 2021

Il trasloco è un giudizio universale (su chi saremo): ci fa paura e ci rianima

 di Gaia Manzini (Corriere della Sera 20.12.2021)

Fare gli scatoloni, decidere cosa tenere e cosa buttare. Breve storia di un processo creativo che rivela chi eravamo. E compila il catalogo di un mondo possibile. Passando per Andrea Staid, André Gide, Virginia Woolf e Morgan

Elizabeth Hardwick è stata la più influente critica letteraria americana del Novecento. Era cresciuta nel Sud degli Stati Uniti, poi a un certo punto era partita per New York. Abitava in un albergo dove divideva la stanza con un amico del Kentucky, anche se a tutt’e due piacevano i maschi. Per molti anni aveva sempre vissuto in residenze per sole donne, luoghi temporanei, promiscui, di transizione. La sua vita si spostava spesso dentro agli scatoloni. In una lettera del 1962, scrive a Mary McCarthy, amica e scrittrice, del suo ennesimo trasloco, del suo ennesimo ritorno a New York.


«TRASFERIRSI ALTERA L’ALCHIMIA SU CUI SI BASA IL NOSTRO BENESSERE. EPPURE SAPPIAMO CHE LA FELICITÀ NON È MAI STATICA»

Il trasferimento da Boston non è stato facile, è stato come attraversare l’oceano con tutta la vita impacchettata. Il tavolo da disegno e il cassettone non erano pronti per questo esilio repentino; cinque piatti si sono rotti; i cassetti si sono sbeccati; gli orologi non torneranno più in vita. Alcuni oggetti si sono smarriti, altri – come il ritratto della zia – non troveranno più la via d’uscita dalla scatola che li ha trasportati. Scartati definitivamente. Perché cambiare casa è sempre la rivoluzione di un universo, in attesa che un altro universo trovi la giusta forma.

Il trauma di «San Franschifo»

Il cambiare casa è un momento decisivo nella vita di ciascuno di noi: un momento narrativo, verrebbe da dire, in cui prima si elabora e in parte cancella quanto c’è stato intorno a noi; poi nei giorni successivi si inizia un nuovo processo creativo, attraverso il quale trovare nuovi racconti di sé e del mondo che ci circonda. Riley Andersen, la giovane protagonista del film Inside Out vive in Minnesota; quando il lavoro del padre costringe la famiglia a trasferirsi a San Francisco non può trattenersi dal sentirsi delusa davanti alla nuova casa, piccola e spoglia. San Francisco verrà soprannominata San Franschifo, anche se l’origine dello sconforto è direttamente legata all’abitazione prima ancora che alla città. In fondo le città sono solo dei palcoscenici; non abitiamo mai davvero le città perché le città sono inabitabili, scrive Emanuele Coccia nella sua Filosofia della casa (Einaudi). Possiamo gironzolare per le strade, chiuderci in un ristorante, un teatro, un cinema, ma primo o poi torneremo a casa nostra. «È sempre e solo grazie e dentro una casa che abitiamo questo pianeta».

L’intimità costruita tra le mura di casa

La casa è il luogo in cui costruiamo un’intimità con una porzione di mondo fatta di oggetti, persone, animali, immagini, ricordi, che rendono possibile la nostra felicità. Ecco perché cambiare casa è sempre sconvolgente: traslocare altera, seppur momentaneamente, questa relazione intima, questa alchimia su cui si basa il nostro benessere. Eppure c’è un paradosso: la felicità non è mai qualcosa di statico, la nostra stessa vita è in continua evoluzione. Friedensreich Hundertwasser, artista e architetto di origini austriache, diceva che l’uomo possiede tre pelli: la propria, gli abiti e la dimora. Tutt’e e tre devono rinnovarsi, crescere e mutare. I cambiamenti sono nella natura delle cose. Se la terza pelle – cioè la casa – non si rinnova come le altre, si irrigidisce e muore, come la cute secca. Il rinnovamento della casa può essere un restauro, uno spostamento di mobili, un nuovo arredo, oppure un trasferimento, dunque un cambiamento radicale, perché è nei cambiamenti radicali che spesso troviamo i nuovi percorsi della nostra stessa personalità. Non è affatto vero, scriveva sempre Hardwick, che non importa dove abiti; non è vero che sei sempre tu sia a Dallas che a New York. Come non è vero che ognuno di noi è legato alla propria regione.

L’AUTRICE AMERICANA SOLNIT E LA SUA CASA A SAN FRANCISCO: «QUANDO ME NE ANDAI, MI RESI CONTO CHE ERO UNA PERSONA DIVERSA DA QUANDO CI ERO ENTRATA TANTI ANNI PRIMA»

L’esperienza (dura) di un’errata collocazione

Molti di noi sperimentano l’esperienza di un’errata collocazione. Vanno alla deriva cercando quella giusta, e forse in alcuni casi non la troveranno mai. Rebecca Solnit, scrittrice, giornalista e femminista americana, nel suo Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie) si rammenta della sua giovinezza a San Francisco, quando era ancora troppo giovane perché la sua vita somigliasse a qualcosa di definitivo. Un giorno andò a vedere un appartamento in una vecchia casa di legno, un monolocale bellissimo con due bovindi inondati di luce: quella divenne casa sua per molti anni. Ci si era trasferita che era ancora un quartiere abitato quasi soltanto da persone di colore e se ne andò quando ormai la gentrificazione lo aveva trasformato. Se ne andò perché anche lei si sentiva diversa: «La persona che se ne andò dalla casa nel Ventunesimo secolo non era la stessa che era andata ad abitarci tanti anni prima». Si costruisce qualcosa che è la vita, che è la propria identità in un continuo sforzo creativo che implica spesso il cambiare casa: lo sceglierne una nuova, il fermarsi a elaborare. I luoghi che abitiamo ci nutrono e ci completano. «In quel piccolo appartamento trovai una casa in cui trasformarmi, un posto dove stare mentre cambiavo e trovavo un posto fuori, nel mondo».

Carne e mattoni abitano uno dentro l’altro

C’era stata talmente tanto in quella casa, Rebecca Solnit, da avere l’impressione che lei e l’appartamento potessero abitare l’uno dentro l’altra, in una coincidenza perfetta. Per l’antropologo Andrea Staid (La casa vivente, add editore) il modo in cui le persone abitano costruisce la propria identità e cultura: abitare assume sempre il senso più ampio di prendersi cura di sé e degli altri. Non facciamo altro che passare il tempo a «fare luogo». Andrea Staid, che ha studiato le modalità abitative in tutto il mondo, ha messo in luce come nelle culture vernacolari la connessione tra l’architettura materiale e l’architettura simbolica sia più evidente, così è ad esempio per le yurte mongole o per gli inukshuk inuit. I tolek africani sono case di terra a forma di proiettile con un diametro di cinque-sette metri.

André Gide se ne innamorò a prima vista; per lui quelle case non erano l’opera di un muratore ma di un vasaio: luoghi in connessione armonica con il mondo circostante, propulsori di energia positiva della madre terra. Ida, protagonista della Storia di Elsa Morante, violentata dal soldato tedesco Gunther, continuerà a spostarsi insieme al figlio Useppe – nato proprio da quella violenza, ma comunque profondamente amato. La guerra, i bombardamenti, le fughe, i traslochi continui: ogni nuovo luogo, nonostante tutto, contiene in sé la promessa di trovare finalmente un’armonia, dunque la felicità.

L’ARCHITETTO HUNDERTWASSER: «L’UOMO POSSIEDE TRE PELLI, LA PROPRIA, GLI ABITI E LA DIMORA. TUTTI E TRE DEVONO RINNOVARSI»

Andiamo a vedere le case nuove dove ci trasferiremo, sono spazi vuoti che al momento possono anche comunicarci ben poco. Dobbiamo riempirli con la fantasia, iniziare a raccontarceli, immaginare lì dentro i nostri movimenti, la coreografia del nostro quotidiano. È un processo lungo, perché «uno spazio diventa un luogo quando propone a chi lo abita un riorientamento simbolico e identitario», scrive Staid. Tutti noi costruiamo una visione di noi stessi e del mondo a partire dalle nostre case. La storia di ognuno di noi parte da una casa, quella di famiglia: dunque da una radicale identificazione, oppure talvolta distacco rispetto a quello da cui veniamo. La casa dice chi siamo o chi vorremmo essere. Nella casa ci sono i nostri dolori, le nostre gioie, la nostra identità nuda. Per Primo Levi la casa era un luogo di memorie, deposito del proprio passato, e in qualche misura del presente. Nella casa stratifichiamo noi stessi e i nostri sogni; la casa è la geologia della nostra vita. Forse è proprio per questo che a volte fa bene liberarsene.

Smarrirsi fuori casa per aprirsi all’ignoto

Per Virginia Woolf, appena usciamo di casa, ci togliamo di dosso la consueta personalità: il che può essere una liberazione dalla nostra identità; l’anonimato è un modo per sentirci liberi. Fuori dalla conchiglia della nostra casa, diventiamo anonimi pedoni: ci smarriamo, non in senso letterale ma nel senso di aprirci verso l’ignoto; lo spazio fisico diventa spazio mentale. Lì è il momento fecondo della scrittura a occhi aperti, il momento in cui è facile immaginarci di essere qualcun altro. È il momento in cui possiamo essere illimitati; anche se poi a casa torneremo, prima o poi. E se la casa decidiamo di cambiarla in continuazione? Nel Libro delle case Andrea Bajani costruisce l’intera storia del suo protagonista descrivendo le molteplici abitazioni in cui ha vissuto. In fondo, è un romanzo sullo sradicamento: il personaggio non fa altro che andarsene, trasferirsi di casa in casa; avendone molte, è come se non ne avesse alcuna. Siamo spaventati dai traslochi, li vediamo come punti di non ritorno; eppure anche se ci spostiamo in continuazione non possiamo far altro che portarci dietro ciò che riteniamo necessario alla vita. Anche se ci spostiamo di continuo non possiamo far altro che cercare una casa e ridefinirci di volta in volta davanti agli scatoloni aperti; ogni volta ci mettiamo a fuoco sempre con maggiore precisione e rinnoviamo la nostra esistenza.

Trenta traslochi, 40 scatoloni in 48 ore

«Erano ovunque e avevano sfigurato il salotto in un labirinto di cartone, nastro adesivo e angosce… Stavo per prendere in mano il primo quando rimasi paralizzato da un grappolo di ricordi confusi – quante volte avevo ripetuto quello stesso gesto? Mi fermai un istante e provai a contare e a ricordare i traslochi già fatti. Trenta… Avevo avuto appena due giorni per chiudere casa. Quarantotto ore per comprare ottanta scatoloni, montarli, chiuderci dentro la mia vita – vestiti, stoviglie, libri, foto, ricordi – affittare un furgone, caricarlo e scaricarlo di nuovo, depositare tutto nel nuovo appartamento, riesumare la mia vita in un luogo che conoscevo appena» scrive Emanuele Coccia. I traslochi sono come il giudizio universale: si salva qualcosa e si condanna all’oblio il resto. Eppure è il trasloco che fa la casa, perché è un momento di elezione. Attraverso la scelta degli oggetti «facciamo casa», che è più importante della casa stessa. Facciamo il catalogo di un mondo possibile.

Cambiare. liberandoci di una parte di mondo

È per questo che traslocare, a volte, è così difficile: significa contemplare tutto quello di cui abbiamo bisogno per dire io in quella fase della nostra vita. È in questa stessa occasione che ci liberiamo di una parte di mondo che non ci appartiene più e mandiamo avanti la nostra esistenza. Come canta Morgan in Altrove: «Un ultimo sguardo / commosso all’arredamento / e chi si è visto si è visto».

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26 giu 2021

Il furto di criptovalute più grande di sempre

I fratelli sudafricani di Africrypt e il furto di criptovalute più grande di sempre: oltre 2 miliardi di dollari in Bitcoin

Ad architettare il maxi raggiro i giovanissimi fratelli Ameer e Raees Cajee, 20 e 17 anni, fondatori della piattaforma Africrypt. Ormai non più rintracciabile il denaro sottratto.

di Alessandro Vinci 25 giugno 2021 corriere.it

Diverse fonti lo hanno già definito il più grande furto di criptovalute di sempre. Non c’è da stupirsi se si considera che a sparire nel nulla sono stati 69 mila Bitcoin, al cambio attuale equivalenti a oltre 2,2 miliardi di dollari (poco meno di 2 miliardi di euro). Nessun dubbio sui responsabili: i sudafricani Ameer e Raees Cajee, rispettivamente 20 e 17 anni, giovanissimi fondatori della piattaforma di investimento Africrypt. I quali, dopo averne prosciugato le casse, si sono resi irreperibili scappando con i soldi dei risparmiatori.


Non era un attacco hacker

Che fosse accaduto qualcosa di anomalo i dipendenti della società se n’erano resi conto già ad aprile, quando avevano improvvisamente perso l’accesso ai sistemi di backend. Pochi giorni dopo era stato lo stesso Ameer, Coo della piattaforma, a informare i clienti che Africrypt era stata vittima di un attacco hacker, invitandoli però a non denunciare nulla ad avvocati e autorità in quanto tali azioni avrebbero rallentato il processo di recupero dei fondi. Col senno di poi, una perfetta scusa per guadagnare tempo. Il vero allarme è tuttavia suonato solo nelle ultime settimane, quando i due fratelli hanno smesso di rispondere alle richieste di chiarimenti e messo il portale definitivamente offline. Poi la doccia fredda: incaricato di fare luce sulla vicenda, lo studio legale Hanekom Attorneys di Città del Capo ha scoperto con l’aiuto delle autorità locali che il denaro sottratto non è ormai più rintracciabile. Ameer e Raees lo hanno infatti riciclato attraverso servizi di mixing illegali che, come intuibile dal nome, si occupano di prelevare monete virtuali «sporche» e di sostituirle in cambio di una commissione con un’analoga quantità di criptovaluta proveniente da altri wallet.

Il precedente di Mirror Trading International


Data la situazione, le probabilità che gli investitori riescano a tornare in possesso dei propri soldi sono chiaramente ridotte al lumicino. A peggiorare le cose è inoltre il fatto che in Sudafrica le criptovalute non sono considerate dalla legge prodotti finanziari, perciò l’assenza di una normativa dedicata rischia di assicurare alle vittime ancora meno giustizia. Quanto alla sorte dei fratelli Cajee, c’è la ragionevole certezza che siano fuggiti all’estero. È possibile che, nell’architettare il maxi raggiro, abbiano tratto ispirazione dalla vicenda di Johann Steynberg, Ceo di un’altra piattaforma di criptoinvestimento sudafricana denominata Mirror Trading International, dileguatosi a dicembre dopo aver deliberatamente causato perdite per circa 589 milioni di dollari (493 milioni di euro) ai danni di centinaia di migliaia di utenti. Un rapporto di Chainalalysis l’aveva classificata come «di gran lunga la più grande truffa del 2020» nel settore. A giudicare dagli oltre 2 miliardi bruciati da Africrypt, non c’è dubbio che gli allievi abbiano superato il (cattivo) maestro. Rendendo così ancora più indifferibile un pronto intervento del legislatore.

4 mar 2021

L’uomo che piantava gli alberi

Per chi non lo avesse ancora fatto, leggere L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono deve essere un impegno preciso. Chi sceglie di togliere un po' di spazio all'immaginazione e preferisce immergersi direttamente in una profonda emozione, troverà nel video di 30 minuti, qui di seguito, una incredibile sorpresa.

È uno di quei racconti impossibili da dimenticare. Per come è scritto, per cosa racconta e per quello che dà in eredità. 
Ci sono grandi insegnamenti da apprendere: il rapporto dell’uomo con la natura, l’influenza che essa può avere sulla vita degli esseri umani, l’inutile rivalità tra i popoli. Si capisce la fondamentale importanza degli alberi e dell’acqua.

Una foresta intera viene rigenerata, senza mutazioni genetiche, senza interessi economici, ma perché l’uomo di cui si parla «aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza d’alberi. [E], non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose». 
Ed è così che si ritrova ad essere altrettanto efficace di Dio durante un periodo storico costellato di distruzioni e abbandoni (Prima e Seconda guerra mondiale). Difendere gli alberi non è sentimentalismo né verde fanatismo, ma una reale attenzione verso delle creature viventi verso le quali saremo sempre in debito. Perché, se non vi fossero le piante, noi come staremmo ora?

Senza perdersi in giri di parole, il racconto di Giono descrive il magnifico ciclo della natura, come essa si rigeneri, in questo caso con un piccolo grande aiuto. Con gli alberi i venti si sono mitigati e invece che sferzate portano semi; l’acqua trova nuovi corsi, viene filtrata dalla radici e con la rinascita della natura riappare una «certa ragione di vivere».


5 nov 2020

Auto elettriche superano i diesel in Europa


Storico sorpasso per la prima volta a settembre 

Il Messaggero Motori

Le auto ibride ed elettriche superano i diesel in Europa per la prima volta in assoluto. I dati sulle immatricolazioni europee - si legge sul sito AutoExpress - mostrano che le auto diesel sono passate in secondo piano rispetto alla potenza combinata di ibridi, ibridi plug-in, ibridi leggeri e auto elettriche. Secondo gli ultimi dati relativi alle immatricolazioni, il mese scorso le auto con propulsione elettrificata hanno superato per la prima volta i modelli diesel in Europa.

A settembre sono state immatricolate in Europa 1,3 milioni di nuove auto, di cui 327.800 elettrificate e circa 322.400 diesel. Le auto a benzina hanno raggiunto nel mese scorso il 47%, in calo rispetto al 59% del settembre 2019. Fino a dieci anni fa, la metà di tutte le auto vendute in Europa erano diesel. Quella quota di mercato è ora crollata al 24,8%, mentre gli echi dello scandalo Dieselgate continuano a riverberare.

In parallelo con la scomparsa del diesel si è registrata la crescita delle auto elettriche ed elettrificate. I dati di Jato Dynamics rivelano che il 53% delle immatricolazioni europee il mese scorso erano auto ibride o ibride leggere, con il 69% di tutte le vendite di Ford Puma e il 59% delle immatricolazioni di Fiat 500, varianti ibride leggere.


EDWARD LUTTWAK RANDELLA “THE DONALD”

“LA COLPA DI TRUMP? AVER AFFRONTATO DA ASSOLUTO INCOMPETENTE LA CRISI SANITARIA DEL CORONAVIRUS”. 

“L'HA PRESA SOTTOGAMBA. QUANDO LE HA DEDICATO UN'ATTENZIONE PARTICOLARE, LO HA FATTO PENSANDO CHE L'EMERGENZA GLI OFFRIVA L'OPPORTUNITÀ DI ESIBIRSI IN UNA CONFERENZA STAMPA-COMIZIO QUOTIDIANA - I DEMOCRATICI? DEVONO CAPIRE CHE GLI USA NON SONO UN PAESE DI ESTREMISTI DI SINISTRA A MAGGIORANZA AFRO AMERICANA. BIDEN DOVRÀ RIVEDERE LA SUA AGENDA POLITICA…”

Flavio Pompetti per il Messaggero

«Biden è il vincitore più che probabile delle elezioni; non ci sono strade aperte che puntino alla riconferma di Trump»
È lapidario il commento di Edward Luttwak, mentre le urne sono ancora aperte, e Donald Trump denuncia il furto dei voti del quale pensa di essere vittima. Così come articolato è il giudizio che il politologo dà del risultato delle urne.
Trump forse perderà, ma dà l'impressione di non aver perso un solo voto rispetto al 2016, né un singolo componente del suo elettorato?

«Trump poteva soltanto perdere questa elezione, e ci è riuscito benissimo. Era a capo di un' economia esuberante, e aveva liberato il paese dai balzelli di regolamenti punitivi per l' industria, alcuni dei quali erano un retaggio degli anni '70. Avrebbe dovuto schiacciare l' avversario sulla strada della rielezione, e farsi carico della riconquista della maggioranza repubblicana alla camera. È riuscito invece a buttare via tutto questo patrimonio, e regalarlo a Biden».

Di cosa è colpevole?
«Di aver affrontato da assoluto incompetente la crisi sanitaria del coronavirus. L'ha presa sottogamba. Quando le ha dedicato un' attenzione particolare, lo ha fatto pensando che l' emergenza gli offriva l'opportunità di esibirsi in una conferenza stampa-comizio quotidiana, da usare per promuovere se stesso agli occhi degli spettatori. 

La figlia Ivanka l'ha implorato di cambiare tono, ma lui ha finito addirittura per annoiarsi per via del formato ripetitivo, e si è addirittura sottratto dal confronto con il pubblico. Lo scarto tra le poche migliaia di voti che lo condanneranno alla sconfitta e il grande distacco che avrebbe dovuto dare all'avversario, è tutto in questo fallimento di gestione della crisi».

Anche Biden uscirà da questa elezione molto ridimensionato rispetto alle aspettative della vigilia?
«Non solo lui, ma l'intera lettura che il partito democratico ha fatto del paese durante questa campagna. Gli Usa non sono un paese di estremisti di sinistra a maggioranza afro americana. I progressisti dovranno prendere distanze nette dall' influenza dei socialisti che si sono fatti strada tra le sue file. Da questa elezione escono ridimensionati alla Camera, e battuti nell'ambizione di conquistare il Senato. Trump è uno sconfitto solitario e autolesionista, loro sono un' intera classe dirigente in diniego della realtà».

L'alternativa processuale per contestare l'esito del voto è percorribile per Trump?
«Non credo, e sinceramente mi auguro che non sia una strada che lui vorrà percorrere. Non è la prima volta nella storia del nostro paese che l' elezione si conclude con uno scarto minimo. Biden pagherà in termini politici il costo di un successo monco. L'agenda di sperpero della finanza pubblica che aveva in mente di realizzare con sovvenzioni a pioggia dovrà essere ridimensionata in luce dell' opposizione del Senato, che sbarrerà la strada ad iniziative troppo sbilanciate. Ma le regole sono chiare e vanno rispettate».

La transizione tra le due amministrazioni sarà lineare? Come risponderà la piazza?
«Non c' è nessun motivo di temere per il compimento di un processo istituzionale ben strutturato e ben difeso dalla legge. E le grida della piazza si esauriranno in tempi ragionevoli. L' estrema sinistra non ha nulla da celebrare dopo questa elezione, e le milizie armate potranno sparare qualche colpo in aria, ma poi riporranno le armi e torneranno a casa. È più urgente tornare a domandarsi cosa sono gli Stati Uniti dopo questa fase politica, e ridefinire le priorità nazionali in base al voto che è appena emerso dalle urne».

4 nov 2020

Sistema scolastico e disuguaglianze

Non è la didattica digitale che crea diseguaglianze, è la scuola in presenza che non le sa colmare

«Il sistema tradizionale basato su lezione frontale e interrogazioni è fatto per confermare le disparità in entrata. Privato della presenza fisica e del compito in classe che ratifica le insufficienze, va a pallino»

di Roberto Contessi insegnante di Liceo e scrittore dal Corriere


Ora che a colpi di legge si devono stabilire dei vincoli sugli spostamenti degli italiani, ecco che la didattica a distanza (Dad) si riaffaccia come strumento di contenimento. Messa così, la Dad sembra una sorta di medicina della Fata turchina che bisogna assumere a malincuore per svuotare strade e autobus dal traffico provocato dalle scuole. Ma è veramente solo questo? Le accuse più ricorrenti contro la didattica a distanza (che qualcuno chiama anche Didattica digitale integrata) sono di tre tipi: porterebbe le diseguaglianze nelle nostre aule, impoverirebbe la didattica sottraendo il contatto fisico tra professori e ragazzi, abbasserebbe la serietà dell’insegnamento. 

Prendiamoci il tempo per ragionare.

La questione della diseguaglianza è quella che mi sta più a cuore. L’accusa si basa sulla differenza di capacità digitali esistenti tra le famiglie italiane, consistente non solo in maggiori o minori competenze ma soprattutto in un’ineguale distribuzione di dispositivi digitali - computer, tablet o altro – e soprattutto di reti efficaci per trasportare il segnale. 

Il tema ovviamente esiste, e forse meritava più attenzione rispetto ai banchi a rotelle, però, la questione non si chiude in questo modo. Per un verso, bisogna sapere che quell’oggetto diabolico chiamato cellulare, in mano a tutti i nostri studenti, garantisce comunque un accesso essenziale alla Dad, cioè alle piattaforme di insegnamento on line. D’altro canto, bisogna sapere che il sistema di istruzione in presenza, lui stesso, mantiene e garantisce le disuguaglianze culturali di partenza tra gli studenti italiani.

Ovviamente chi tocca questo argomento si scotta, perché è scomodo e nessuno ne parla di buon grado, ma, stando alle rilevazioni statistiche sui profitti medi dei nostri figli e nipoti, il metodo di insegnamento tradizionale non recupera le loro debolezze di partenza: dunque, a scuola vanno bene studentesse e studenti che provengono da contesti familiari felici e attenti, mentre va male chi proviene da contesti familiari distratti o infelici. Amen. 

Nonostante ciò, oltre a sottolineare a gran voce la scontata pagliuzza della Dad, mi sorprende che non si alzi una sola voce verso l’incapacità della nostra scuola in presenza di rappresentare un ascensore culturale e sociale per chi non nasca in un contesto fortunato. La lezione frontale e la sequenza spiego-interrogo rimangono ancora le forme didattiche prevalenti in licei ed istituti tecnici, inefficaci verso i ragazzi deboli perché in grado semplicemente di confermare i valori in entrata. Non è tutto.

Le due accuse alla Dad, citate in precedenza, sono figlie della mancata messa a fuoco di questo elemento decisivo. Un metodo didattico, già di scarsa efficacia in presenza, collassa nel momento in cui si cambia lo strumento di interazione. 

Detto in altri termini, se i professori trasferiscono online la lezione frontale e la sequenza spiego-interrogo, si trovano privi dell’unico strumento di potere che permette loro di mantenere l’ordine del gruppo classe: la coercizione. Privati della presenza fisica che costringe gli studenti a manifestare attenzione (spesso di facciata) e privati del compito in classe che ratifica i valori insufficienti, il sistema tradizionale va completamente a pallino. Casca per colpa del mezzo informatico? Il mezzo informatico porta semplicemente alla luce l’assenza spesso di qualsiasi elemento di coinvolgimento, di motivazione, di ingaggio che esiste nella lezione.


Laddove non c’è interesse, i ragazzi in Dad partecipano in pigiama, oscurano il video, si nascondono, e il metodo tradizionale lascia il professore solo con la sua frustrazione di avere davanti a sé un uditorio che realizza la fuga dalla scuola che covava da tempo.
E spesso anche lui abbandona il campo.

Intendiamoci: non c’è nulla di cui gioire. Un sistema scolastico in presenza che lascia indietro quasi sette ragazzi su dieci, secondo le stime Invalsi, Ocse-Pisa e Almadiploma, mostra tutti i suoi limiti quando si esce dall’ambiente classe, fosse solo con l’uso di un computer. Quei sette ragazzi su dieci sono un grosso problema, perché avranno difficoltà a studiare dopo la scuola, a formarsi, a preparare un concorso, a trovare un lavoro e la stupida felicità per essersi sottratti ad una lezione noiosa, diventa una questione molto seria quando si troveranno in possesso di capacità di leggere, scrivere e far di conto solo basilari. E qui il mio tono diventa estremamente grave.

La pandemia mostra il nervo scoperto delle nostre debolezze. L’inefficacia del metodo didattico tradizionale è una di queste perché mostra che la scuola si limita spesso a confermare le disuguaglianze di partenza. Si può continuare a girare la testa, e gettare la croce sul computer o sulle piattaforme come Meet o Teams, irridendole come la causa di un disagio formativo. Oggi però abbiamo prove quantitative ed inequivocabili che è il sistema formativo in sé a mantenere rendite di posizione: non è il computer a rendere la scuola inefficace, ma è il patto del silenzio per una offerta formativa al ribasso che unisce professori, studenti, presidi e genitori. 

Non sarà il caso di iniziare ad affrontare il problema?

13 ott 2020

«Non sapevo più leggere, ora mi sono laureato»

Giovanni Menegon, l’ex assessore colpito dall’ictus: «Non sapevo più leggere, ora mi sono laureato»

Bassano del Grappa, il malore nel 2006: «Mi sono svegliato sei giorni dopo in ospedale, ero una scatola vuota». Adesso è dottore in Economia aziendale

di Andrea Priante Corriere della Sera del 13.10.2020

Giovanni Menegon, 58 anni, dopo la festa di laurea in piazza San Marco a Venezia
Giovanni Menegon, 58 anni, dopo la festa di laurea in piazza San Marco a Venezia
Era il 2 febbraio del 2006, quella sera era in programma la festa organizzata da una società sportiva. «Mi sono seduto a tavola e ricordo soltanto l’uomo che stava di fronte a me e che all’improvviso si mette a gridare. 

Mi sono svegliato sei giorni dopo all’ospedale di Padova. Ero entrato in coma e, al mio risveglio, ero come una scatola vuota. Una scatola che ora, un po’ per volta, sono tornato a riempire». A Bassano del Grappa, Giovanni Menegon lo conoscevano tutti. Gestiva un negozio di abbigliamento in centro, aveva molti amici, la parlantina di chi ci sa fare coi clienti, e piaceva a tutti. 

Gli altri commercianti l’avevano eletto rappresentante di quella che all’epoca si chiamava Umce e oggi è la Confcommercio. Poi, era arrivata la politica: nel 2005 il sindaco Gianpaolo Bizzotto l’aveva chiamato in giunta, nominandolo assessore allo Sport. E anche lì aveva dimostrato talento, al punto che di lui si parlava come possibile futuro candidato sindaco di Bassano.

I medici
Invece. «I medici dissero che avevo avuto un ictus cerebrale ischemico nella parte sinistra del cervello. Ricordavo alcune cose, tipo chi ero, il nome di mia moglie e dei miei figli. Ma molte altre erano perdute. Non sapevo parlare, né leggere, né scrivere. Comunicavo come i bambini: mostrando le mie emozioni con le carezze, le lacrime...». 
Un uomo di mezza età benestante e proiettato verso il successo, che all’improvviso perde tutto. Perfino se stesso. L’ischemia l’aveva trasformato: emiplegico (con la parte destra del corpo paralizzata), aprassico (impossibilitato a muoversi) e afasico (incapace di esprimersi). «Non mi riconoscevo più. Mi sentivo inutile e terribilmente solo». 
Per Menegon fu orribile. «Dopo un anno, quasi tutti i miei amici sparirono. In fondo, li capivo: non è divertente uscire con uno incapace di comunicare. Pensai al suicidio. Arrivai a pianificare di salire all’ultimo piano di un palazzo di Vicenza e gettarmi di sotto».

La famiglia
A salvarlo fu l’amore dei due figli, all’epoca bambini, e di sua moglie Monica. «Non potevo sparire così, non meritavano altre sofferenze. Invece dovevo ripartire proprio per loro, cominciando da zero, ricostruendo un pezzo per volta l’uomo che ero stato». 
Ed è esattamente ciò che ha fatto, grazie anche alle cure del Centro Studi di Riabilitazione Neurocognitiva di Santorso, nel Vicentino, diretto dal professor Carlo Perfetti. «Un luminare in materia, gli devo tutto» assicura quest’ex commerciante prestato alla politica. 
E così, poco per volta, armato solo della sua forza di volontà, si è messo d’impegno sui libri che utilizzano gli scolari di prima elementare. «Per fortuna la mia intelligenza era rimasta intatta. Ho imparato le lettere dell’alfabeto, poi a scrivere le parole, le frasi... Finalmente ho cominciato a leggere e ho riscoperto il significato di “studiare”. Mentre recuperavo le capacità motorie e la parte destra del mio corpo tornava a funzionare, cominciavo finalmente a riempire di concetti anche quella scatola vuota che era diventata la mia testa».

Quattordici anni dopo
Giovanni Menegon aveva 44 anni quando fu colpito dall’ictus, oggi ne ha 58. E il 25 settembre, in Piazza San Marco a Venezia, c’era anche lui tra i settecento studenti universitari invitati alla cerimonia per la consegna dei diplomi. Perché in quattordici anni di fatiche, esercizi riabilitativi e sedute di logopedia, quest’uomo ha saputo «ritrovarsi», al punto di affrontare tutti gli esami all’Università di Ca’ Foscari e laurearsi in Economia Aziendale con una tesi (discussa col collegio dei docenti) dal titolo: «Aspetti Psicologici della Finanza Comportamentale». 
Una storia di resilienza. «Ne vado orgoglioso, ovvio. E sicuramente quel titolo vale più di quest’altro» dice indicando un quadro in salotto: c’è la sua prima laurea, in Economia e Commercio. Ma era il 1989 e per lui, poco più che ragazzo, l’ictus sarebbe rimasto un nemico sconosciuto ancora per molti anni. Oggi è tutto diverso.

Le letture
«Faccio ancora fatica a parlare - spiega - perché la lingua non sempre esegue subito gli ordini che le invia il cervello. Prima dell’ischemia celebrale ero un gran chiacchierone, mi piaceva comunicare. Ora è questo il mio prossimo obiettivo: solo quando saprò esprimermi come facevo una volta, potrò dire di aver completato il mio percorso». 
Per il resto, l’ex assessore trascorre le giornate divorando un libro dopo l’altro. Trattati di psicologia o di medicina, soprattutto. Come se volesse capire i meccanismi che regolano la mente. «Ora sto affrontando “Il libro rosso”, dello psichiatra svizzero Carl Gustav Jung. È molto interessante». 
Ma l’opera che più l’ha colpito non ha niente a che fare con la sua malattia. Almeno non direttamente. «Mentre ero chiuso qui, in casa, “Il diario di Anna Frank” mi è stato di conforto. Rileggendolo, mi sono riconosciuto nel senso di profonda solitudine che provava quella povera ragazzina rinchiusa nella soffitta di Amsterdam. Ciò che ho vissuto, l’ictus e tutto ciò che ne è seguito, mi hanno portato a scoprire il senso di molte cose». 
La politica non gli manca. «Non ho alcun rancore, però sono convinto che a causare l’ictus abbia contribuito proprio l’attività amministrativa: ero perennemente stressato, pieno di impegni, le giornate frenetiche. Ma ora basta: ho capito che non ne valeva la pena». Forse è un errore sostenere che Menegon stia ritornando l’uomo che era. «Ne sto costruendo uno migliore».


9 ott 2020

L'ultima lezione di Liliana Segre



E' bastevole ascoltare, immaginare e provare a sentirsi dentro ad una storia che ha riguardato altri, ma che potrebbe sempre toccare ad ognuno di noi.